martedì 31 maggio 2011

Monologhi: Tommy Lee Jones a.k.a. lo sceriffo Ed Tom Bell

Ancora una scena tratta dai Coen. Lo sappiamo, siamo ripetitivi, è che ci piacciono un sacco i film dei fratelli di Minneapolis.

Questa volta vi segnaliamo un monologo preso da Non è un paese per vecchi, opera vincitrice del premio Oscar nel 2008 come miglior film. La storia, ambientata nel sud del Texas nei primi anni Ottanta, è tratta dall’omonimo romanzo di Cormac McCharty, e vede come protagonisti Tommy Lee Jones, Anton Chigurth e Llewelyn Moss.

Il monologo in questione è la scena di apertura del film, in cui Ed Tom Bell tira le somme sulla sua vita da sceriffo nella sperduta contea texana.


A venticinque anni ero già lo sceriffo di questa contea. Difficile a credersi. Mio nonno faceva lo sceriffo, e anche mio padre. Io e lui siamo stati sceriffi contemporaneamente, lui a Plano e io qui. Credo che ne andasse fiero. Io ne andavo fiero, eccome. Ai vecchi tempi c’erano sceriffi che non giravano neanche armati. Molta gente stenta a crederci, Jim Scarbon non portava mai la pistola, e neanche Geston boy, quello della contea di Comanche. Mi è sempre piaciuto sentir parlare di quelli dei vecchi tempi, non ne ho mai perso l’occasione. Uno non può fare a meno di paragonarsi a loro, di chiedersi cosa avrebbero fatto loro al giorno d’oggi. C’è un ragazzo che ho mandato sulla sedia elettrica qui a Hadzville qualche anno fa, su mio arresto e mia testimonianza. Aveva ammazzato una ragazzina di quattordici anni. I giornali scrissero che era un crimine passionale, ma lui mi disse che la passione non c’entrava niente, che da quanto si ricordava aveva sempre avuto in mente di ammazzare qualcuno, e se non fosse entrato in galera l’avrebbe rifatto. Sapeva che sarebbe andato all’inferno, e da lì a un quarto d’ora ci sarebbe andato. Io non so cosa pensare, non lo so proprio. Con la criminalità di oggi è difficile capirci qualcosa. Non è che mi faccia paura, l’ho sempre saputo che uno dev’essere disposto a morire se vuole fare questo lavoro. Ma non ho intenzione di mettere la mia posta sul tavolo, di uscire per andare incontro a qualcosa che… non capisco. Significherebbe mettere a rischio la propria anima. Dire ok, faccio parte di questo mondo.

Marco


venerdì 27 maggio 2011

Dialoghi: sequenza tratta da "La ricotta"

Pier Paolo Pasolini nel 1963 gira La ricotta, un mediometraggio che racconta la messa in scena in chiave parodistica di un film sulla passione di Cristo. L’opera, considerata dissacrante dalle autorità religiose dell’epoca, è costata al regista l’accusa di vilipendio alla religione cristiana per la sua carica polemica nei confronti della sfera del sacro.

Il film narra la storia di Stracci, un borgataro chiamato a vestire i panni di un ladrone che sarà crocifisso accanto a Gesù; una comparsa che dirà solo una battuta. Non riuscirà a portare a termine il suo compito: morirà un attimo prima di pronunciare quelle parole tra la quasi indifferenza dei presenti, perché stremato dall’abbuffata di ricotta fatta tra una pausa e l’altra delle riprese.

La scena riportata vede come protagonisti il direttore del film (interpretato da Orson Welles) e un giornalista che, approfittando di un momento di pausa del set rivolge al regista alcune domande.


GIORNALISTA: Permette una parola? Scusi tanto, forse disturbo, sono del Paese Sera.

REGISTA: Dica, dica.

GIORNALISTA: Permette, vorrei da lei una piccola intervista.

REGISTA: Ma non più di quattro domande.

GIORNALISTA: Grazie. La prima domanda sarebbe: che cosa vuole esprimere con la sua nuova opera?

REGISTA: Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo.

GIORNALISTA: …cattolicesimo. E che cosa ne pensa della società italiana?

REGISTA: Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa.

GIORNALISTA: Ah, e che ne pensa della morte?

REGISTA: Come marxista è un fatto che non prendo in considerazione.

GIORNALISTA: Quarta ed ultima domanda: qual è la sua opinione sul nostro grande regista Federico Fellini?

REGISTA: Egli danza. Egli danza.

GIORNALISTA: Ah, grazie. Arrivederla.

REGISTA: Ehi! “Io sono una forza del passato”. E’ una poesia. Nella prima parte il poeta ha descritto certi ruderi antichi di cui nessuno più capisce stile e storia, e certe orrende costruzioni moderne che invece tutti capiscono. Poi attacca giusto così: “Io sono una forza del passato, solo nella tradizione, è il mio amore. Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare, dai borghi dimenticati sugli Appennini e sulle Prealpi, dove sono vissuti i fratelli. Giro sulla Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone, o guardo i crepuscoli le mattine su Roma, sulla Ciociarìa, sul mondo come i primi atti del dopo storia cui io assisto per privilegio d’anagrafe dall’orlo estremo di qualche età sepolta. Mostruoso chi è nato dalle viscere di una donna morta. E io, feto adulto, mi aggiro più moderno di ogni moderno, a cercare fratelli che non sono più.” Ha capito qualcosa?

GIORNALISTA: Beh ho capito molto… giro per la Toscolana…

REGISTA: Scriva, scriva quello che le dico. Lei non ha capito niente perché lei è un uomo medio. E’ così?

GIORNALISTA: Beh sì.

REGISTA: Ma lei non sa cos’è un uomo medio? E’ un mostro. Un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista.

GIORNALISTA: Ehehem.

REGISTA: E’ malato di cuore lei?

GIORNALISTA: No, no, facendo le corna.

REGISTA: Peccato, perché se mi crepava qui davanti sarebbe stato un buon elemento per il lancio del film. Tanto lei non esiste. Addio.

Marco


lunedì 23 maggio 2011

Film della settimana: Festen


Di Thomas Vinterberg

Con Ulrich Thomsen, Henning Moritzen, Thomas Bo Larsen

Helge Klingenfeldt, un ricco signore danese, raduna la famiglia al completo per festeggiare il suo sessantesimo compleanno. Il luogo scelto per l’evento è una lussuosa villa antica dispersa nella campagna a nord di Copenaghen. Tra le decine di ospiti illustri la narrazione segue principalmente i movimenti di Christian, il primogenito, un uomo alquanto imprevedibile. Sarà lui, a metà film, a rovinare irrimediabilmente l’idillio familiare confessando le nefandezze e gli abusi compiuti dal padre ai danni di Linda, la sorella minore morta suicida l’anno prima. Apriti cielo. E il cielo si apre per davvero sulla famiglia Klingenfeldt.

Festen è famoso nella storia del cinema per essere il primo film del collettivo Dogma 95, un movimento cinematografico danese fondato da Lars Von Trier e Thomas Vinterberg nella primavera del 1995. Nel manifesto firmato a quattro mani i due registi dichiarano che il movimento rappresenta un “voto di castità” nei confronti di un cinema “cosmetizzato fino alla morte”, sempre più schiavo delle nuove tecnologie e degli effetti speciali a scapito della storia da raccontare. Stilano così dieci regole fondamentali alle quali devono aderire tutte le persone che si propongono di partecipare al movimento: 1) Le riprese vanno girate sulle location. Non devono essere portate scenografie ed oggetti di scena. 2) Il suono non deve mai essere prodotto a parte dalle immagini e viceversa. 3) La macchina da presa deve essere portata a mano. Ogni movimento o immobilità ottenibile con le riprese a mano è permesso. 4) l film deve essere a colori. Luci speciali non sono permesse. 5) Lavori ottici e filtri non sono permessi. 6) Il film non deve contenere azione superficiale. 7) L’alienazione temporale e geografica non è permessa. 8) Non sono accettabili film di genere. 9) L'opera finale va trasferita su pellicola Academy 35mm, con il formato 4:3, non widescreen. 10) Il regista non deve essere accreditato. In conclusione ai dieci comandamenti Von Trier e Vinterberg tengono a precisare un ulteriore fondamentale pensiero: “Inoltre giuro come regista di astenermi dal gusto personale! Non sono più un artista. Giuro di astenermi dal creare un'"opera", perché considero l'istante più importante del complesso. Il mio obiettivo supremo è di trarre fuori la verità dai miei personaggi e dalle mie ambientazioni. Io giuro di far ciò con tutti i mezzi possibili ed al costo di ogni buon gusto ed ogni considerazione estetica. Così io esprimo il mio VOTO DI CASTITÀ."

Festen è il numero 544 della videoteca di Dedalo.

Marco

venerdì 20 maggio 2011

Dialoghi: sequenza tratta da "Il buono, il brutto, il cattivo"

Sullo sfondo della guerra di secessione americana, uomini sporchi e avidi di denaro si aggirano nei territori assolati del west. Sembrano figure mitiche, rese celebri dai soprannomi loro affibbiati: Biondo, Tuco, Sentenza. Unico obiettivo nella vita: sopravvivere, e possibilmente avere la pancia piena prima di andare a dormire.

Il buono, il brutto, il cattivo è il terzo capitolo della celeberrima trilogia del dollaro, ed è una pietra miliare dello spaghetti western, sottogenere cinematografico inaugurato da Sergio Leone nel 1964. E' un film epico, scolpito per sempre nella storia del cinema. Clint Eastwood, Eli Wallach, Lee Van Cleef sono attori che non hanno bisogno di presentazioni.

Nella sequenza vediamo il Brutto cadere nelle mani del Cattivo. Sentenza incastra il Tuco.


SENTENZA: Avanti, vieni avanti Tuco. Non fare complimenti. Quanto tempo eh? Hai fame? Siediti, mangia.

TUCO: Ahahahahahh, lo sapevo che… nel momento che t’ho visto mi sono detto: “guarda quel porco di Sentenza come si è piazzato bene. E lui non se li scorda gli amici.”

SENTENZA: Certo che non li scordo gli amici, Tuco.

TUCO: Bravo!

SENTENZA: Mi fa piacere di vederli ogni tanto.

TUCO: Giusto!

SENTENZA: Specialmente quando vengono da così lontano, e hanno tante cose da raccontarti. E tu ne hai di cose da raccontarmi eh?

TUCO: Eh!

SENTENZA: Tu sei stato preso a Fort Greg.

TUCO: Mh mh.

SENTENZA: Quindi se eri con Sibley vuol dire che venivi da Santa Fé.

TUCO: Mh mh.

SENTENZA: Brutto il deserto eh?

TUCO: Tanto brutto, specie se non hai niente da bere.

SENTENZA: Com’è che ti chiami Bill Carson adesso?

TUCO: Beh, è un nome buono come un altro, no? Il mio è meglio non portarlo in giro. E del resto anche tu, mica ti fai chiamare Sentenza. Ahah, il sergente Sentenza, ahahahah. Sarebbe bello.

SENTENZA: Dimmi Tuco, ti piace la musica?

TUCO: La musica? Sì che mi piace, fa bene alla digestione.

SENTENZA: E così Bill Carson è un nome inventato.

TUCO: Mh.

SENTENZA: Allora anche questa è inventata. C’è scritto Bill Carson dentro. Un po’ di tabacco? Coraggio, serviti pure.

TUCO: Ahhh!

Marco


giovedì 19 maggio 2011

Monologhi: Woody Allen a.k.a. Sandy Bates

Di monologhi Woody Allen è maestro indiscusso, e forse il più prolifico. Da Prendi i soldi e scappa a Basta che funzioni il genietto di New York si è reso celebre nel creare personaggi strampalati, eccentrici e logorroici, che ricorrono a estenuanti monologhi per esprimere il loro pensiero sulla vita, sull’amore e sulla morte.

In Stardust Memories, film del 1980, Woody Allen è Sandy Bates, un regista che sta attraversando un lungo periodo di crisi creativa ed esistenziale. E’ follemente innamorato di Dorrie, la sua musa, una figura sfuggente e instabile, che lo destabilizza non poco.

Il monologo della scena è dedicato proprio a lei, e racconta un breve momento di felicità vissuto inaspettatamente da Sandy una domenica mattina.


Cercavo qualcosa che desse un senso alla mia vita e un ricordo attraversò la mia mente. Era una di quelle splendide giornate di primavera, era domenica, sentivi che l’estate era in arrivo. Ricordo che quella mattina con Dorrie eravamo andati a fare un giro nel parco. Tornammo a casa, ce ne stavamo seduti qua e là... e io misi un disco di Louis Armstrong, una musica che amo, ci sono cresciuto insieme, era molto carina. E mi successe di alzare lo sguardo e vidi Dorrie lì, e mi ricordo che pensai dentro di me che era magnifica e quanto l’amavo. E non lo so, credo che fosse tutto l’insieme, il suono di quella musica, e la brezza, e come vedevo bella Dorrie, e per un breve momento tutto sembrò fondersi perfettamente e io mi sentii felice, quasi indistruttibile in un certo senso. E’ buffo, quel semplice e breve momento di contatto mi commosse in un modo così profondo.

Marco


lunedì 16 maggio 2011

Dialoghi: sequenza tratta da "The Hours"

Oggi la rubrica Dialoghi propone una scena tratta da un film famosissimo, The Hours, scritto da David Hare e diretto da Stephen Daldry nel 2002. Il film racconta le vite di tre donne vissute negli Stati Uniti in tre diversi momenti del Novecento: gli anni Venti, gli anni Cinquanta e la fine degli anni Novanta.

Il filo rosso che unisce le storie di Virginia, Laura e Clarissa (interpretate da Nicole Kidman, Julianne Moore e Meryl Streep) è un libro scritto da Virginia Woolf nel 1925, Mrs Dalloway.

Il dialogo che segue appartiene alla storia di Laura Brown.


KITTY: C’è nessuno? C’è nessuno? Laura?

LAURA: Ciao Kitty.

KITTY: Ciao, ti disturbo?

LAURA: Assolutamente no, vieni.

KITTY: Ti senti bene?

LAURA: Ma certo.

KITTY: Ciao Richie!

LAURA: Siediti, sto facendo il caffè. Ne vuoi una tazza?

KITTY: Perché no. Oh guarda, hai fatto una torta?

LAURA: Lo so, è venuta male. Speravo che venisse bene. Io speravo che venisse meglio di così.

KITTY: Laura non capisco cosa ci trovi di difficile. Chiunque è capace di fare una torta. Tutti le fanno, è una cosa facilissima. Scommetto che non hai nemmeno unto il tegame.

LAURA: L’ho unto il tegame.

KITTY: D’accordo. Comunque, tu hai altre doti. E ben ti ama tanto che non si accorgerà neanche, qualsiasi cosa tu faccia dirà che è meraviglioso. Beh è vero scusa.

LAURA: Rachel ha un compleanno?

KITTY: Certo che ce l’ha!

LAURA: E quando?

KITTY: A settembre. Andiamo al Counrty Club, andiamo sempre al Country Club. Beviamo Martini e passiamo la giornata con cinquanta persone.

LAURA: Hai tanti amici.

KITTY: Sì.

LAURA: Avete tutti e due tanti amici. Vi riesce bene. Come sta Ray? Non lo vedo da un po’.

KITTY: Sta bene. Che ragazzo incredibile.

LAURA: Lo puoi dire forte. Sono tornati dalla guerra. Se lo sono meritato., dopo tutto quello che hanno passato.

KITTY: Cosa hanno meritato?

LAURA: Non lo so, noi forse. Tutto questo.

KITTY: Ah, stai leggendo un libro.

LAURA: Sì.

KITTY: E di che cosa parla?

LAURA: Parla di una donna incredibilmente… un’ospite perfetta e incredibilmente sicura di quello che fa. Deve dare una festa, e forse proprio perché è così sicura tutti credono che sta bene, invece non è vero. Così…

KITTY: Beh,

LAURA: Kitty che c’è, qualcosa non va?

KITTY: Io… devo andare in ospedale per un paio di giorni.

LAURA: Kitty.

KITTY: Si sai, c’è una specie di escrescenza nel mio utero e devono entrare a dare un’occhiata.

LAURA: Quando?

KITTY: Oggi pomeriggio. Daresti da mangiare al cane?

LAURA: Ma certo. Sei venuta solo per chiedermi del cane? Cos’ha detto il dottore con esattezza?

KITTY: E’ probabile che fosse questo il problema per rimanere incinta. Io sono molto… veramente felice con Ray. E ora l’idea che ci fosse una ragione per cui non riuscivo ad avere figli… sei fortunata Laura, una non si sente realizzata come donna se non è madre. Nella vita, per ironia, ho sempre saputo fare tutto. Ovvero, sono riuscita a fare tutto sul serio, tranne l’unica cosa che volevo. Tutto qui.

LAURA: Se non altro ora potranno intervenire.

KITTY: Certo, è quello che vogliono fare.

LAURA: Certo.

KITTY: Non sono preoccupata. A che serve preoccuparsi.

LAURA: No, non controlli niente tu.

KITTY: Eh già, il controllo ce l’ha un medico mai nemmeno visto in vita mia. Un chirurgo che probabilmente beve più Martini di Ray.

LAURA: Kitty…

KITTY: E poi sono preoccupata per Ray.

LAURA: Kitty, vieni qui.

KITTY: Io sto bene, davvero.

LAURA: Lo so, lo so che stai bene.

KITTY: Semmai sono preoccupata per Ray che una cosa così lui non ce la fa…

LAURA: Lascialo perdere, lascialo perdere.

KITTY: Sei dolce. Sai come si fa, vero? Mezza scatoletta la sera e controlli l’acqua ogni tanto. Ray ci penserà al mattino.

LAURA: Kitty, ti è dispiaciuto?

KITTY: Cosa? Non mi è dispiaciuto cosa?

LAURA: Vuoi che ti accompagni?

KITTY: Sai, forse mi sento meglio se vado da sola.

LAURA: Kitty andrà tutto bene vedrai.

KITTY: E’ chiaro. Ciao.

Marco


mercoledì 11 maggio 2011

Film della settimana: Stranger than Paradise


Di Jim Jarmusch

Con John Lurie, Richard Edson, Eszter Balint

Il nucleo originario di Stranger than Paradise è un cortometraggio dal titolo The New World, realizzato nel 1982 grazie alla pellicola inutilizzata dall’amico Wim Wenders nel film Lo stato delle cose. Nel 1984 Jarmusch trova i fondi per estendere il progetto: conosce un giovane produttore tedesco, Otto Grokemberger, che finanzia la realizzazione di due nuovi capitoli dell’opera, One Year Later e Paradise. Stranger than Paradise viene completato nei primi mesi del 1984, ed entra in conscorso al Festival di Cannes dello stesso anno riuscendo a vincere il premio come miglior film d’esordio.

"Quello che non sopporto sono i film didatticamente politici, quelli che provvedono facilmente a dare delle risposte con le quali bisogna per forza essere d’accordo - ha dichiarato Jim Jarmusch qualche anno più tardi - questo, per esempio, è quello che fa un regista come Spielberg, nei cui film tutti sono capitalisti o almeno piccolo-borghesi, tutti credono in Dio e hanno gli stessi valori: politicamente lo trovo davvero disastroso e spregevole. Con questo non voglio dire che Spielberg sia un fascista, ma che non pensa politicamente: considera l’America come una specie di sogno, come un ideale. E’ un atteggiamento come questo a determinare il declino del Paese.”

Forte della convinzione di dare voce a individui che non riflettano necessariamente i valori più comuni della società americana, Jarmusch crea dei personaggi che vivono ai confini della comunità, e adotta un atteggiamento disilluso nei confronti del "sogno americano" rinvigorito in epoca reaganiana negli anni Ottanta. Indaga la vita dei cosiddetti outcast, di coloro che non hanno un vero e proprio lavoro, sono privi di una particolare ambizione e sono incapaci di decidere autonomamente il proprio destino perché alienati da una vita sostanzialmente sempre uguale a se stessa.

Nel film, Willy è un giovane immigrato ungherese che ama considerarsi americano al cento per cento. Per cena si permette pure un tv dinner, in perfetto stile yenkee anni Ottanta. Sfiga vuole che s'innamori di Eva, la cugina appena arrivata a New York dall'Ungheria, e non riesce a dichiararle il proprio amore perché si scopre profondamente impacciato a misurarsi con un sentimento del genere. Eddie (Richard Edson, ex batterista dei Sonic Youth), è il migliore amico di Willy e segue come un’ombra tutto ciò che fa il personaggio interpretato da John Lurie. Sui Cahiers du cinéma Hervé le Roux è glaciale nel descriverli: "Loro non vivono, funzionano. Per dirla tutta, sono due grandi funzionalisti. Ciò che più considerano dell’America è il football, le scommesse sulle corse e, soprattutto, il tv dinner."

Se non sapete cosa sia un tv dinner e morite dalla voglia di scoprirlo, è proprio il caso di vedere Stranger than Paradise. E’ il numero 516 della videoteca di Dedalo.

Marco

martedì 10 maggio 2011

Monologhi: Anna Karina a.k.a. Nana

Dopo il successo di A bout de souffle, uno dei capisaldi della nouvelle vague, Godard nel 1962 scrive e dirige Vivre sa vie (tradotto in italiano col titolo Questa è la mia vita), un film che non segue una linea narrativa tradizionale ma è strutturato in 12 capitoli tra loro giustapposti.

I dodici quadri, o tableaux, raccontano diversi aspetti della vita di Nana Kleinfrankheim, personaggio interpretato Anna Karina (all’epoca moglie di Godard), una giovane aspirante attrice che non riesce ad entrare nel mondo dello spettacolo e per questo si trova costretta ad entrare nel giro della prostituzione.

Il breve monologo estratto dal film ruota attorno ad alcuni problemi esistenziali di Nana.


Io credo che siamo sempre responsabili delle nostre azioni. E liberi. Alzo la mano, sono responsabile. Giro la testa a destra, sono responsabile. Sono infelice, sono responsabile. Fumo una sigaretta, sono responsabile. Chiudo gli occhi, sono responsabile. Dimentico di essere responsabile, ma lo sono. No, è quello che ti dicevo prima. Voler evadere è un’illusione. In fondo, tutto è bello. Basta interessarsi alle cose e trovarle belle. Sì, in fondo le cose sono come sono e nient’altro. Un volto è un volto. Dei piatti sono dei piatti. Gli uomini sono gli uomini. E la vita, è la vita.

Marco

lunedì 9 maggio 2011

Il volo - concorso fotografico

Attenzione attenzione! Con grande piacere vi presentiamo le fotografie del 1° Concorso Fotografico di Dedalo Teatro. Sono 23 scatti, 23 variazioni sul tema del volo.

Da questo momento sono aperte le votazioni, e tutti gli associati sono chiamati ad esprimere la loro preferenza. Le foto sono numerate, e per votare è sufficiente mandare una mail all’indirizzo info@dedalo.org indicando il numero dell’immagine che ritenete più bella e originale.

Buona visione!

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

12

13

14

15

16

17

18

19

20

21

22

23

Vi ricordiamo che ogni associato ha diritto a votare una sola immagine.
Le votazioni saranno aperte fino a domenica 12 giugno 2011.
E grazie agli autori!

giovedì 5 maggio 2011

Dialoghi: sequenza tratta da "Blue In the Face"

Scritto e diretto a quattro mani da Paul Auster e Wayne Wang, Blue In the Face è un film che racconta la vita di New York, e in particolare di Brooklyn, uno dei suoi quartieri più famosi, attraverso le storie dei perditempo che frequentano la tabaccheria di Auggie, personaggio interpretato da Harvey Keitel. Tra le comparse che affollano il negozio di Auggie, vale la pena ricordare almeno qualche nome eccellente: Jim Jarmusch, Lou Reed, Michael J. Fox e Madonna.
Il dialogo che vi proponiamo oggi, protagonisti Jim Jarmusch e Harvey Keitel, ruota attorno al mondo del fumo, delle sigarette, e di quanto Hollywood sia colpevole della diffusione in tutto il mondo di questo "bruttissimo" vizio. La sequenza è a dir poco esilarante. Eccola.


BOB: Credo che molta gente inizi a fumare perché… a Hollywood, nei film, il fumo è idealizzato. Si sai, guardi Marlon Brando o James Dean fumare una sigaretta... Marlene Dietrich…

AUGGIE: Così è come ho cominciato io.

BOB: A si?

AUGGIE: Quando ero adolescente vidi “A Walk in the Sun”. L’hai visto?

BOB: No.

AUGGIE: Richard Conte e… chi era l’altro? Non me lo ricordo. Comunque, sono nella campagna d’Europa, nell’esercito, durante la 2° guerra mondiale. Conte ha una mitragliatrice e il suo assistente le munizioni, o un’altra mitragliatrice. Mentre camminano sul sentiero che li porta alla battaglia, Conte comincia a filosofeggiare sulla vita, e ogni tanto dice: “Cicca!”. Il compagno gli dà la sigaretta, e poi sospira. E per qualche motivo, il modo in cui Richard Conte camminava sotto il sole con la mitragliatrice sottobraccio e diceva: “Cicca!”, penso che questo mi abbia fatto venire la voglia di fumare. E continuavo a fare questo scherzo agli amici al bar. Io dicevo: “Cicca!”, e loro: “Ma vattene, scemo!”

BOB: Ahahahhhah.

AUGGIE: Ahahhahah.

BOB: Parlando di film, questo non c’entra niente, però, stavo pensando… la notte scorsa stavo guardando la televisione, c’era un film giapponese. Chissà perché quando nei film c’è una sparatoria e finiscono le pallottole, clic, clic, buttano via la pistola. Proprio come se fosse un accendino scarico o qualcosa del genere. Dai, le pistole costano un sacco di soldi. Non possono semplicemente ricaricare l’arma?

AUGGIE: Ahahahahhh.

BOB: Sai di cosa sto parlando? Sempre no? Clic, e buttano via la pistola.

AUGGIE: E’ una giusta osservazione.

BOB: E un’altra cosa che mi sembra assurda, sono i film di guerra, quelli sui nazisti… perché fumano sempre in modo così strano?

AUGGIE: Uahahahahahh.

BOB: “Sappiamo come farti parlare, Auggie.”

AUGGIE: Ahahahahh.

BOB: E’ un tipo di minaccia no? o di tortura.

AUGGIE: Ahhhahh.

BOB: O se no fanno così: “Sì, sappiamo chi ha sbagliato, abbiamo visto quello che hai fatto”.

AUGGIE: Ahahahh.

BOB: Il peggio è che quelli di Hollywood ci hanno fatto prendere il vizio del fumo, sono loro ad averlo idealizzato… e adesso lì non puoi neanche più fumare. Accendi una sigaretta in un ristorante, e subito arrivano: “Mi scusi, signore, è proibito dalla legge fumare nei ristoranti.” Ma come, loro me lo dicono? Sono loro che mi hanno fatto cominciare? Capisci no?

Marco


martedì 3 maggio 2011

Film della settimana: La classe - Entre les murs


Di Laurent Cantet

Con François Bégaudeau, Esmeralda Ouertani, Rachel Régulier

La realtà dei sobborghi popolari di Parigi, le famose banlieue, è conosciuta al grande pubblico solo in parte. Non se ne parla spesso, e quando se ne parla, dai media arriva l’immagine di un luogo violento, di un ghetto in cui spesso scoppiano rivolte improvvise. L’ultima, la più “famosa”, è quella del novembre 2005, in cui vennero date alle fiamme migliaia di automobili e centinaia di persone furono arrestate. Qui in Italia, in particolare, non si conosce molto di quei posti, se non grazie ad un film come L’odio di Mathieu Kassovitz, che con amara chiaroveggenza, predisse ciò che sarebbe realmente successo dieci anni più tardi a Clichy-sous-Bois e a Montfermeil.

Il recente film di Laurent Cantet inserisce un tassello prezioso nel nostro immaginario, mettendo in luce un lato poco conosciuto delle banlieue, in quanto è ambientato interamente tra le mura di una normalissima scuola media. Più precisamente, indaga il rapporto complesso tra i ragazzini di una terza e il loro insegnante di lettere (François Bégaudeau, insegnante anche nella vita reale). “Volevo mettere in scena la realtà senza sposare un punto di vista politico - ha dichiarato il regista in un’intervista di un paio di anni fa - il professore può essere considerato conservatore quando chiede a un alunno di togliersi il cappellino in classe, e progressista quando interagisce pacatamente nell’insegnamento senza fare distinzioni. Nella classe che ho mostrato non accadono episodi estremi di violenza e droga, dati sicuramente reali ma resi eccezionali dai giornali.”

Ciò che il film sembra mettere in discussione, non è tanto la presunta capacità di François di saper insegnare qualcosa a dei ragazzini in difficoltà, quanto piuttosto l’efficacia del sistema scolastico in sé. Prova ne è che, nel finale, una giovane ragazza confida al professore di avere la sensazione di non aver imparato nulla durante l’anno, e con aria smarrita chiede all’uomo quale sia il senso dell’insegnamento di tutte le materie, perché certe cose s’insegnano e altre no, e a quale fine. A farle eco, a metà film, ci pensa Souleyman, ragazzo silenzioso e quasi sempre indifferente allo svolgimento delle lezioni, secondo il quale la cosa più importante da sapere non l’ha incontrata sui banchi di scuola, ma in una frase del Corano. Una frase che, lapidaria, riassume un principio di vita considerato così importante da essersela tatuata sul braccio sinistro: “Se quello che hai da dire non è più importante del silenzio, allora taci.”

La classe – Entre les murs è uno di quei film da vedere e rivedere milioni di volte, anche dietro fila. E’ il numero 577 della videoteca di Dedalo.

Marco

lunedì 2 maggio 2011

Dialoghi: sequenza tratta da "Il maschio e la femmina"

La rubrica Dialoghi, quest’oggi, consiglia una scena presa da Il maschio e la femmina di Jean-Luc Godard, forse l’esponente più famoso, nonché uno dei pochi rimasti in vita, della nouvelle vague francese. Il film è del 1966, e vede come attori protagonisti Jean-Pierre Léaud, Chantal Goya, Marlène Jobert e pure una comparsata di Brigitte Bardot.

La storia narrata è tratta da due novelle di Guy de Maupassant, e racconta la difficile relazione sentimentale tra Paul e Madeleine, due giovani ragazzi francesi che, a prima vista, hanno pochissime cose in comune. Il film indaga il loro avvicinamento piuttosto travagliato.


PAUL: Guardami negli occhi. A cosa pensi in questo momento mentre mi guardi? Rispondimi.

MADELEINE: Non penso a niente.

PAUL: A niente è impossibile. Sarai pure costretta a pensare a qualcosa. Si pensa sempre a qualcosa. Avanti, dimmelo.

MADELEINE: Non vedo perché.

PAUL: Perché voglio saperlo. Avanti, cosa pensi?

MADELEINE: Io…

PAUL: Su.

MADELEINE: Qual è per te il centro del mondo?

PAUL: Il centro del mondo?

MADELEINE: Sì.

PAUL: Per due che si conoscono appena è buffo cominciare col farsi domande del genere, no?

MADELEINE: No, no. Secondo me è una domanda normale.

PAUL: Tu trovi?

MADELEINE: Avanti, rispondi alla mia domanda.

PAUL: Il centro del mondo è l’amore.

MADELEINE: Per me, invece, il centro del mondo sono io.

PAUL: Ehm…

MADELEINE: Ti sembra ridicolo? A me sembra una cosa molto logica.

PAUL: In un certo senso, infatti è così.

MADELEINE: In che senso?

PAUL: Nel senso che tutti quanti viviamo in prima persona. Cioè, parliamo con la nostra bocca, guardiamo con i nostri occhi…

MADELEINE: Tu pensi che si possa vivere da soli? Sempre da soli?

PAUL: No, non mi pare che sia possibile. E’ assurdo vivere da soli. Proprio per quello che dicevo prima, che si ha bisogno di tenerezza, se no c’è da spararsi.

MADELEINE: Guardami negli occhi. Se un giorno ti dicessi che potrei amarti, tu saresti felice?

PAUL: Certo che lo sarei.


Ecco i filmati: il primo è doppiato in italiano, l'altro è in lingua originale (nel filmato originale, il "nostro" dialogo comincia al minuto 7, più o meno).

Marco